La luce obliqua del tempo, parte seconda
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Il tempo delle grandi cavalcate in montagna era finito, di quando arrivava all'alba per tornare al tramonto, in cui l'unica compagnia era la sua e l'unica esigenza era salire. Era finito il tempo dei grandi obiettivi da perseguire con maniacale perseveranza. Ora la sua anima si era divisa in tre, racchiusa tra le mura domestiche. Dentro il plasma iniquo, ricordo acido dei tempi andati, si era fuso e attratto ma anche respinto dalla sua condizione di padre/marito. Nel verde liquido amniotico di madre natura aveva quasi perso la sua identità. Ma adesso il numero perfetto era il tre, a lui tentava di dare le maggiori attenzioni.
E mentre per l'italiano erano cominciate nuove esperienze a cui, forse, non era ancora preparato, i suoi più convinti sostenitori l'avevano via, via abbandonato. L'interesse per lui era scemato e il solo Sabato, come ultimo, patetico baluardo del tempo che passa, continuava ad interessarsi all'italiano atipico che conosceva molto più il Ticino di quanto lo conoscessero i suoi abitanti.
Non lo seguiva più come prima, certo, forse per nostalgia, perchè chi scandisce il tempo non per forza lo ama quando passa inesorabile.
Si sentiva in colpa, ma la legge umana, da sempre marchia col fuoco fatuo della decadenza ogni singolo individuo.
L'italiano si difendeva ancora bene e dove aveva perso in forza, l'aveva guadagnato in amore per il bosco. Spesso l'aveva visto tornare a valle con ogni sorta di immondizia lasciata, ora dai boscaioli (catene rotte, lattine di birra o cibo), ora da altri che ritenevano la montagna la loro discarica personale. E questo rispetto supremo per la madre terra l'aveva insegnato anche al figlio.
Poi un giorno Sabato, per la centesima volta, l'aveva visto salire alla Cima di Visghed, questa volta da Prosito.
Era l'8 febbraio e la cima era ancora innevata. Dall'alto della sua esperienza il Lombardo sapeva, superato I'Alpe Pianaccio e poi il lungo traverso di quota 1440m circa sotto una fascia di rocce, della presenza di pericolose candele di ghiaccio che potevano cadergli in testa, come era già successo. Così pure sapeva che dopo il bivio per Orgnega c'era un tratto che slavinava e che si doveva attraversare con neve sicura.
Arrivato in vetta egli si era sentito ad un tratto molto triste e solo. Proprio qui avrebbe voluto essere in tre ma non era possibile. Non vi era condivisione a queste quote. Qui ritornava solo senza più esserlo davvero e questa dissonanza stridula l'aveva messo di malumore. Questi sentimenti dovevano aver contagiato anche Sabato, perchè giunto al termine del suo turno aveva indetto una riunione con tutti suoi compagni.
Era stata dura, qualcuno mancava sempre, ma alla fine su sua insistenza avevano deciso di mettersi in comunicazione con lui. Non che avesse fatto chissà cosa. Non era un alpinista e di escursionisti forti ce n'erano a migliaia. Ma l'amore per il Canton Ticino, per la loro terra, quello si che era davvero unico.
Fu allora che venni convocato. Fu a me che venne lasciato l'arduo compito di portare a termine questa "missione". Venne chiesto a me, il Tempo in persona, di trovarne il sistema.
Ci pensai a lungo e l'unica cosa che mi venne di fare fu scrivere di lui in un luogo umano, scritto e letto da umani.
Fu allora che decisi di assegnarli un nome inventato, che non portava a lui, che con lui non c'entrava, ma che d'istinto lo associavo alla sua figura.
Così scrissi di Gabrio e di quello che aveva fatto perchè l'amore per il Ticino e la natura tutta, nella sua completa vastità, non andasse perduta nei meandri dell'oblio. Scrissi di lui sperando in un difficile punto d'incontro che non poteva nascere. Ma tutto ciò che Gabrio aveva donato al Ticino di cui io ero il mandante, non doveva finire con l'indifferenza.
Io, il tempo, donavo me stesso proprio a colui che, più di altri, aveva richiesto la mia presenza per meglio condividere la stessa grande passione per questa terra.
E mentre per l'italiano erano cominciate nuove esperienze a cui, forse, non era ancora preparato, i suoi più convinti sostenitori l'avevano via, via abbandonato. L'interesse per lui era scemato e il solo Sabato, come ultimo, patetico baluardo del tempo che passa, continuava ad interessarsi all'italiano atipico che conosceva molto più il Ticino di quanto lo conoscessero i suoi abitanti.
Non lo seguiva più come prima, certo, forse per nostalgia, perchè chi scandisce il tempo non per forza lo ama quando passa inesorabile.
Si sentiva in colpa, ma la legge umana, da sempre marchia col fuoco fatuo della decadenza ogni singolo individuo.
L'italiano si difendeva ancora bene e dove aveva perso in forza, l'aveva guadagnato in amore per il bosco. Spesso l'aveva visto tornare a valle con ogni sorta di immondizia lasciata, ora dai boscaioli (catene rotte, lattine di birra o cibo), ora da altri che ritenevano la montagna la loro discarica personale. E questo rispetto supremo per la madre terra l'aveva insegnato anche al figlio.
Poi un giorno Sabato, per la centesima volta, l'aveva visto salire alla Cima di Visghed, questa volta da Prosito.
Era l'8 febbraio e la cima era ancora innevata. Dall'alto della sua esperienza il Lombardo sapeva, superato I'Alpe Pianaccio e poi il lungo traverso di quota 1440m circa sotto una fascia di rocce, della presenza di pericolose candele di ghiaccio che potevano cadergli in testa, come era già successo. Così pure sapeva che dopo il bivio per Orgnega c'era un tratto che slavinava e che si doveva attraversare con neve sicura.
Arrivato in vetta egli si era sentito ad un tratto molto triste e solo. Proprio qui avrebbe voluto essere in tre ma non era possibile. Non vi era condivisione a queste quote. Qui ritornava solo senza più esserlo davvero e questa dissonanza stridula l'aveva messo di malumore. Questi sentimenti dovevano aver contagiato anche Sabato, perchè giunto al termine del suo turno aveva indetto una riunione con tutti suoi compagni.
Era stata dura, qualcuno mancava sempre, ma alla fine su sua insistenza avevano deciso di mettersi in comunicazione con lui. Non che avesse fatto chissà cosa. Non era un alpinista e di escursionisti forti ce n'erano a migliaia. Ma l'amore per il Canton Ticino, per la loro terra, quello si che era davvero unico.
Fu allora che venni convocato. Fu a me che venne lasciato l'arduo compito di portare a termine questa "missione". Venne chiesto a me, il Tempo in persona, di trovarne il sistema.
Ci pensai a lungo e l'unica cosa che mi venne di fare fu scrivere di lui in un luogo umano, scritto e letto da umani.
Fu allora che decisi di assegnarli un nome inventato, che non portava a lui, che con lui non c'entrava, ma che d'istinto lo associavo alla sua figura.
Così scrissi di Gabrio e di quello che aveva fatto perchè l'amore per il Ticino e la natura tutta, nella sua completa vastità, non andasse perduta nei meandri dell'oblio. Scrissi di lui sperando in un difficile punto d'incontro che non poteva nascere. Ma tutto ciò che Gabrio aveva donato al Ticino di cui io ero il mandante, non doveva finire con l'indifferenza.
Io, il tempo, donavo me stesso proprio a colui che, più di altri, aveva richiesto la mia presenza per meglio condividere la stessa grande passione per questa terra.
Tourengänger:
Gabrio

Communities: Hikr in italiano, Ticino Selvaggio
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