Piz Arpiglia, 2765
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Per il Capitano, reduce da un infortunio motoristico con danni ad un piede, oggi è la prima uscita della stagione. Verso le sette, partiamo dall’Aprica in cerca di neve.
Ci dirigiamo verso l’Engadina, aperti a soluzioni alternative che dovessero intrigarci strada facendo, ma con l’Arpiglia già nei ns. pensieri.
Una classica invernale, che non abbiamo mai fatto, esposta nordovest, sicura anche con condizioni generali meno favorevoli di quelle odierne e con un dislivello medio adatto ad una prima uscita.
Panorama desolante dalla Valtellina al Bernina: per vedere la neve bisogna guardare molto in alto e, anche lì, non sembra granché. Come da informazioni la situazione migliora scendendo verso nordest e a Zuoz sembra quasi inverno. Lungo la strada che scende da Pontresina abbiamo incontrato un gran fermento e tanta Polizia: è partita, dal Maloia, la Engadinmarathon, quarantadue chilometri sugli sci stretti aperti a tutte le categorie, dal campionissimo alla schiappa volenterosa.
Sono in dodicimila, ci dice uno dei responsabili dell’organizzazione che, a Resgia, ci indica l’incipit del ns. itinerario.
Da qui è impossibile sbagliare: il primo tratto, un pendio aperto fra due ali di bosco, sembra una pista. Bella dura, anche.
Lo risaliamo rapidamente; larici, abeti e mughi, cominciano a diradare, la pendenza si addolcisce; pieghiamo verso ovest e iniziamo a risalire la dorsalona, un po’ pelata, che porta verso la cima. Per essere una classicissima, (lo conferma l’infinità di recenti tracce di discesa), oggi compare stranamente deserta: non incontreremo nessuno fino a metà discesa. Evidentemente l’Engadinmarathon ha assorbito tutti gli aneliti sportivi nel raggio di molti chilometri.
Nei dintorni dell’Alp Arpiglia, la pendenza è piuttosto contenuta, per tornare ad impennarsi più avanti dove, da lontano, il percorso sembra avventurarsi in uno slalom fra roccette. In effetti è così, ma si sale comunque agevolmete, con frequenti inversioni e strettoie fra sassi affioranti.
Si sale. Già! Ma, poi, come si scende? Rimandiamo il problema e continuiamo a salire. Il tempo, intanto, si è decisamente guastato e la nostra cima e quella del vicino Piz Uter scompaiono ripetutamente fra le nuvole. Il percorso, però, è elementare e le condizioni sono tali da escludere senza remore qualsiasi timore di valanga. Capitan Piero rallenta un po’, ma non accusa particolari problemi.
Superiamo un ultimo salto fra rocce che sanno di Grigna e raggiungiamo un ometto che segna l’inizio di un ultimo, breve falsopiano. Poco più in là, la vetta, che è in realtà un vasto pianoro delimitato da due ometti; dal primo, un po’ più basso, impieghiamo quasi dieci minuti a raggiungere il secondo, che indica il punto più alto.
Panorama pochino; visibilità scarsina: intuiamo che dalla sella tra la nostra cima ed il Piz Uter si diparte un pendio piuttosto ampio che sembra ben innevato e che ci permetterebbe di scendere diretti, saltando la problematica parte di roccette affioranti, ma si vede poco e non abbiamo la guida, per cui preferiamo tornare sui ns. passi, (altri dieci minuti di traversata a ritroso) e ridiscendere da dove siamo venuti.
A parte un paio di punti, dove ci troviamo in pieno sui sassi, ce la caviamo abbastanza bene: stando sul lato sinistro della dorsale, con un po’ di attenzione al ripido pendio, si riesce a sciare abbastanza bene su uno strato di neve riportata dal vento che appoggia su una sottile crosta gelata su fondo erboso. Ci spostiamo poi a destra, trovando perfino un bel pendio con neve ancora polverosa ai piedi del quale, rientriamo verso l’Alp Arpiglia con un breve diagonale.
Da lì, neve piuttosto molle e funestata da tracce di affondamenti di chi, ieri o qualche giorno prima, con temperature più alte, se l’è passata, evidentemente, peggio di noi.
Il rado bosco, l’esposizione e le caratteristiche del terreno, fanno, però, chiaramente capire perché l’Arpiglia è considerata una classicissima: mentalmente ci prenotiamo un ritorno per il prossimo gennaio, in una di quelle belle giornate da -20, ma col sole, che l’Engadina è in grado di regalare spesso. Qui, gli spazi sono ampi e, anche tra la folla, la tua scia di polvere te la inventi sicuro.
Sulla direttissima finale la neve cambia ancora: la “pista” è marmata tale e quale al mattino e, con qualche protesta dei quadricipiti, ci deposita ai bordi dell’ Engadinmarathon.
La “carica dei dodicimila” sta mettendo in scena le terze file, che in un clima di ansimante allegria, sfilano ininterrotte verso gli ultimi cinque chilometri della loro fatica.
Ne vedo transitare alcuni che hanno l’aria di avere passato gli ottanta. Chapeau! Ma, chissà? ... forse, alla partenza, ne dimostravano cinquanta.
Ci dirigiamo verso l’Engadina, aperti a soluzioni alternative che dovessero intrigarci strada facendo, ma con l’Arpiglia già nei ns. pensieri.
Una classica invernale, che non abbiamo mai fatto, esposta nordovest, sicura anche con condizioni generali meno favorevoli di quelle odierne e con un dislivello medio adatto ad una prima uscita.
Panorama desolante dalla Valtellina al Bernina: per vedere la neve bisogna guardare molto in alto e, anche lì, non sembra granché. Come da informazioni la situazione migliora scendendo verso nordest e a Zuoz sembra quasi inverno. Lungo la strada che scende da Pontresina abbiamo incontrato un gran fermento e tanta Polizia: è partita, dal Maloia, la Engadinmarathon, quarantadue chilometri sugli sci stretti aperti a tutte le categorie, dal campionissimo alla schiappa volenterosa.
Sono in dodicimila, ci dice uno dei responsabili dell’organizzazione che, a Resgia, ci indica l’incipit del ns. itinerario.
Da qui è impossibile sbagliare: il primo tratto, un pendio aperto fra due ali di bosco, sembra una pista. Bella dura, anche.
Lo risaliamo rapidamente; larici, abeti e mughi, cominciano a diradare, la pendenza si addolcisce; pieghiamo verso ovest e iniziamo a risalire la dorsalona, un po’ pelata, che porta verso la cima. Per essere una classicissima, (lo conferma l’infinità di recenti tracce di discesa), oggi compare stranamente deserta: non incontreremo nessuno fino a metà discesa. Evidentemente l’Engadinmarathon ha assorbito tutti gli aneliti sportivi nel raggio di molti chilometri.
Nei dintorni dell’Alp Arpiglia, la pendenza è piuttosto contenuta, per tornare ad impennarsi più avanti dove, da lontano, il percorso sembra avventurarsi in uno slalom fra roccette. In effetti è così, ma si sale comunque agevolmete, con frequenti inversioni e strettoie fra sassi affioranti.
Si sale. Già! Ma, poi, come si scende? Rimandiamo il problema e continuiamo a salire. Il tempo, intanto, si è decisamente guastato e la nostra cima e quella del vicino Piz Uter scompaiono ripetutamente fra le nuvole. Il percorso, però, è elementare e le condizioni sono tali da escludere senza remore qualsiasi timore di valanga. Capitan Piero rallenta un po’, ma non accusa particolari problemi.
Superiamo un ultimo salto fra rocce che sanno di Grigna e raggiungiamo un ometto che segna l’inizio di un ultimo, breve falsopiano. Poco più in là, la vetta, che è in realtà un vasto pianoro delimitato da due ometti; dal primo, un po’ più basso, impieghiamo quasi dieci minuti a raggiungere il secondo, che indica il punto più alto.
Panorama pochino; visibilità scarsina: intuiamo che dalla sella tra la nostra cima ed il Piz Uter si diparte un pendio piuttosto ampio che sembra ben innevato e che ci permetterebbe di scendere diretti, saltando la problematica parte di roccette affioranti, ma si vede poco e non abbiamo la guida, per cui preferiamo tornare sui ns. passi, (altri dieci minuti di traversata a ritroso) e ridiscendere da dove siamo venuti.
A parte un paio di punti, dove ci troviamo in pieno sui sassi, ce la caviamo abbastanza bene: stando sul lato sinistro della dorsale, con un po’ di attenzione al ripido pendio, si riesce a sciare abbastanza bene su uno strato di neve riportata dal vento che appoggia su una sottile crosta gelata su fondo erboso. Ci spostiamo poi a destra, trovando perfino un bel pendio con neve ancora polverosa ai piedi del quale, rientriamo verso l’Alp Arpiglia con un breve diagonale.
Da lì, neve piuttosto molle e funestata da tracce di affondamenti di chi, ieri o qualche giorno prima, con temperature più alte, se l’è passata, evidentemente, peggio di noi.
Il rado bosco, l’esposizione e le caratteristiche del terreno, fanno, però, chiaramente capire perché l’Arpiglia è considerata una classicissima: mentalmente ci prenotiamo un ritorno per il prossimo gennaio, in una di quelle belle giornate da -20, ma col sole, che l’Engadina è in grado di regalare spesso. Qui, gli spazi sono ampi e, anche tra la folla, la tua scia di polvere te la inventi sicuro.
Sulla direttissima finale la neve cambia ancora: la “pista” è marmata tale e quale al mattino e, con qualche protesta dei quadricipiti, ci deposita ai bordi dell’ Engadinmarathon.
La “carica dei dodicimila” sta mettendo in scena le terze file, che in un clima di ansimante allegria, sfilano ininterrotte verso gli ultimi cinque chilometri della loro fatica.
Ne vedo transitare alcuni che hanno l’aria di avere passato gli ottanta. Chapeau! Ma, chissà? ... forse, alla partenza, ne dimostravano cinquanta.
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