Punta Marani o Schwarzhorn, 3108 - Punta Gerla, 3087
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Ho contato almeno quattordici Schwarzhorn, quindi mi sembra più logico chiamarla Punta Marani.
Certo, il nome tedesco suona più aggressivo, ma, anche col nome italiano, la salita non cambia di una virgola: bella, lunga, discretamente impegnativa.
Pancho, grande amante del Devero, mi ci aveva già portato nel precedente millennio, 10 aprile 1999; e mi ci riporta di martedì, dopo che, la sera precedente, con un paio di Campari shakerati, ha scardinato il mio esile senso del dovere, convincendomi a condividere il giorno di ferie che lui si è preso.
Stavolta facciamo le cose da scialpinisti seri: partenza da Como alle 5 e 30; alle 7 e 40, sci ai piedi, siamo davanti al controllo ARVA; un minuto dopo attraversiamo il ponte sulla confluenza tra Rio Buscagna e Torrente Devero e ci lanciamo nell’attraversamento della piana.
In realtà, si poteva fare meglio. C’è luce già da parecchio ed infatti, passato il Rifugio Castiglioni e giunti all’Alpe Campello, vediamo sopra di noi un gruppetto che sta sbucando sui Piani della Rossa, dopo aver risalito la ripida valle del torrente omonimo.
Poco male, tempo ne abbiamo, (per oggi, ho pianificato di arrivare in ufficio alle cinque del pomeriggio!) e, così, abbiamo dato tempo al sole di cominciare ad ammorbidire un po’ la neve, che è bella dura, ma non ci pone particolari problemi sul ripido approccio. Pancho attraversa i Piani a passo di corsa, supera il pendio successivo senza una forchetta e svolta verso nord, immettendosi nella parte superiore del percorso. La giornata è splendida, il pendio sudest è inondato di sole, ma ripido e con neve sempre dura, con in più una sottile patina superficiale che, se da un lato tende a scivolar via, costringendo a lavorare di lamina, dall’altro comincia ad attaccarsi alle pelli, prefigurando infausti scenari.
Pancho non mi da tregua fino a che, al cambio di pendenza (e di direzione), non ha raggiunto tutti i componenti del gruppetto che ci precedeva. Francesi o, comunque, francofoni ma non particolarmente socievoli.
“Forse, riusciamo a fare il tempo dell’altra volta.” Ah, ecco, mo’ ho capito! “Non credo”, rispondo, mostrandogli i dieci centimetri di neve attaccati agli sci. “Secondo me, ci metto quattro ore!” Tolgo gli sci, li ripulisco dallo zoccolo e tento di asciugare le pelli con una maglietta di cotone. “Hai un po’ di sciolina?” Figurarsi!
Ora abbiano davanti il canale. Direzione ovestsudovest, quasi ovest; esposizione estnordest, quasi est. Sono le dieci; sole ovunque, ma la neve non molla. Inizialmente pendenza contenuta, ma lo zoccolo è sempre lì; come un orso, approfitto di qualche roccia affiorante per grattare le pelli, ma non c’è niente da fare. La neve è dura ma lo zoccolo è duro a morire. La pendenza aumenta progressivamente e, ora c’è anche il vento; si insinua dalla bocchetta per poi buttarsi giù uralnte per il canale. La neve diventa sempre più dura, i rampant, ovviamente sono in macchina e, del resto, non ne sono un estimatore. Il vero problema è che, con lo zoccolo che non si stacca più, le lamine non lavorano, i traversi sono problematici e ogni forchetta un delicato gioco di equilibrio. Intanto, già parecchio sopra di me, Pancho, che i rampant non li ha mai comprati, sale più veloce, anche, se, pure lui, di tanto in tanto, sembra accusare qualche problema di tenuta.
Del resto, non ho modo di occuparmi troppo d’altro. Sono in una posizione veramente delicata: nel tratto più ripido, mi sono spostato troppo a destra dove la neve è veramente marmata; tornare a sinistra è un impresa, ma alla fine, affidandomi anche alla presa dei bastoncini ce la faccio. Raggiungo una stretta strisciata di neve lavorata dal vento, superficialmente più morbida, dove già avevo notato una traccia di salita senza sci; me li tolgo anch’io, stando attendo di non finire in braccio ai francesi, infilo i bastoncini nelle fibbie dello zaino e comincio a risalire con gli sci in mano. Qui va meglio, la punta dello scarpone entra quel tanto che basta e ogni tanto pianto gli sci quei dieci centimetri che mi permettono di recuperare in sicurezza il fiato, che si è fatto molto corto.
Intanto, il Chuck Norris della lamina è già fuori. “Ci ha fatto penare sto muro, questa volta” mi dice quando finalmente lo raggiungo. “Ma dai?! Non mi ero accorto!”
Dopo dieci minuti di rifiato e fotografie, prendiamo due strade diverse: Pancho verso la Punta Gerla, io verso la Punta Marani. “C’è ghiaccio. Senza ramponi non ce la facciamo”
Decido di provarci lo stesso, ma alla fine, per pochi metri, avrà ragione lui. Dopo due tentativi riesco a superare una piccola gobba gelata iniziale, poco esposta; salgo comodamente per una traccia di sentiero e poi, con limitato uso delle mani, approdo alla crestina finale. I primi passi sono buoni, ma poi la cresta si stringe e la traccia diventa scivolosa; sono veramente gli ultimi metri, dieci, quindici, non di più, poi sarei sulle comode rocce sommitali. Ma, qui, l’esposizione c’è: una scivolata sarebbe fatale; accidenti alla mania di non portarsi mai niente! Lascio perdere, fotografo le vette, Pancho sulla cima della Punta Gerla, i francesi che risalgono l’ultimo tratto di canale; poi ridiscendo al colle, saluto il primo arrivato dei francesi, che fatica un po’ a rispondere e raggiungo Pancho dalla parte opposta, al cospetto del Cervandone.
Bella discesa, anche se non memorabile. Il canale è sempre molto duro, ma sciabilissimo (credo che la pendenza non superi mai i 35 gradi); più sotto si smolla tutto, ma non si affonda, per cui sciamo comodi fino ai Piani della Rossa che abbiamo cura di fare quasi senza curve per non perdere l’abbrivio. E anche sul ripido valloncello del torrente, la neve, sostanzialmente tiene portandoci giù fino a Cantone. Sudata pazzesca per attraversare la piana, ponte, stazione ARVA e parcheggio.
Chiudiamo una grande giornata a Croveo con rinfrescata in abbeveratoio e ottima mangiata dalla Strega Bacheca, (così la chiamano gli esperti), che non tradisce mai.

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