Ciastel de Fòses 2245m - Der Graue
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Um dahin zu gelangen, starten wir an der Podestagnokehre und marschieren auf der verschneiten Forststraße zur Ra Stua. Noch ein Stück weiter zweigt rechts die Markierung zum Fossessee ab und ich staune, nur eine alte Schneeschuhspur ist zu erkennen und auch die verliert sich bald wieder. So bin ich auf mich allein gestellt und ziehe meine eigene Spur durch den Schnee.
Ich lege die Gamaschen an und komme gut voran, die Schneeauflage hält sich in Grenzen und es gibt genügend Gamsspuren, die mir den Weg weisen. Bald kommen die ersten leibhaftig in Sicht, auch sie staunen, von den vielen Ausflüglern im Val Salata verliert sich kaum jemand hier herauf.
Ich stapfe durch den Schnee, in der Ferne kommt das Kreuz in Sicht und direkt dahinter das Ciastel de Fòses. Das ist heute der perfekte Gipfel für mich, unbekannt, nicht zu hoch und bei der Schneelage noch gut erreichbar. Zunächst lasse ich mich vom Crosc del Griš inspirieren und stelle mir vor, was damals hier passiert sein muss, eine junge Ehefrau, die ihren Gatten mit der Axt erschlägt, kaum zu glauben!?
Der Hang zur "Fossesburg" zieht über dem Kreuz weiter. Ich folge den Gamsspuren in einfachem Gehgelände bis zum höchsten Punkt mit Steinmann. Es öffnet sich ein herrlicher Blick ins Fossesgebiet und zu den umliegenden Gipfeln, gewaltig. Es wimmelt nur so von Gämsen, in den Südhängen suchen sie nach Fressbarem und ihre Spuren ziehen durch die ganze Landschaft.
Kurz denke ich über die Runde zum Fossessee und zur Sennesalm nach, aber bei der dubiosen Schneelage wäre das ein mühsamer Kraftakt. Lieber steige ich zurück und werde pünktlich zum Kaffeetrinken gemeinsam mit meinen Begleiterinnen wieder an der Ra Stua sein. Ich steige ab und suche mir die Linie mit der geringsten Einsinktiefe. Immer wieder erwischt mich eine eingeschneite Mulde, aber meist komme ich gut voran und gelegentlich hält der windgepresste Schnee sogar.
Bei der Scharte auf ca. 2120m beginnt dann der steile Abstieg ins Val Salata und hier kommt mir die Schneeauflage sogar entgegen. Ich gleite und rutsche auf dem Steiglein dahin und in Windeseile bin ich auf der gewalzten Piste und wenig später in der warmen Stube an der Ra Stua beim kleinsten Apfelstrudel, den die Welt je gesehen hat.
Anhang
nach Luca Dell´Osta
Questa è una storia vera:
Una storia di luoghi, di persone, di sentimenti violenti. Una casella vuota vicino al nome di lei; deceduto «per uccisione» è quanto riporta il registro vicino al nome di lui. Due parole in un vecchio e polveroso archivio per ricordarci che, questa, è una storia vera.
È il 1848. Al confine tra l’impero Asburgico e quella che fino a pochi anni prima era stata la Serenissima Repubblica di Venezia, in una straordinaria vallata vivono due giovani; lei, Anna Maria, abita con la famiglia e aiuta la madre nelle faccende di casa. È giovane, bella; lui, Simone Alverà detto Griš, “grigio” nell’idioma locale, l’ampezzano, è un robusto giovanotto, un po’ rude come tutti i montanari, pastore di pecore sui pascoli di Foses.
I due si conoscono; si incontrano, e poi sboccia l’amore. Convolano a nozze nel giro di poche settimane, insieme ad altre coppie, il 29 febbraio del 1848, poco prima dell’inizio della Quaresima, periodo durante il quale il diritto canonico vieta i matrimoni.
Anna Maria e Simone si amano, vanno a vivere insieme. Ma il legame coniugale è difficile, i tempi sono diversi dagli attuali. Simone è un brav’uomo, ma con la moglie litiga per qualsiasi inezia; lui è un uomo tutto d’un pezzo, un vero pastore, un montanaro: non sa più cosa fare per trattenere la sua donna che non resta al suo posto; volano degli scapaccioni, arrivano le cinghiate. I due non ce la fanno più a sopportare questa condizione.
Nel frattempo si avvicina la primavera, e Simone si appresta a partire per il pascolo di Foses con le pecore della Regola.
La situazione è insostenibile. Simone è a Foses, insieme alle pecore. Anna Maria è giù in paese, e si appresta a salire in alta montagna per portare al marito uno zaino colmo di provviste. Prende pane, un bel po’ di grappa e vino, speck e salame, e si incammina. Ha anche un altro oggetto, nello zaino, ma questo non lo sa nessuno.
Parte all’alba, ed è a Foses quando il sole è già alto. Saluta il marito, gli offre le leccornie che ha portato dal paese, e poi lo invita a bere la grappa. Un sorso, poi un altro, e un altro ancora. Alla fine tutta la bottiglia è finita; Simone è completamente ubriaco, e fa qualche passo sul sentiero insieme alla moglie per accomiatarsi da lei. Ma non ce la fa, e crolla dormendo vicino a quel cucuzzolo dove era solito sedersi, con un filo d’erba in bocca, fischiettando, a guardare le pecore brucare i verdi pascoli.
Solo allora la donna si fa coraggio. Si guarda attorno con un’occhiata furtiva, del tutto inutile lì dove a vederla sono solamente i placidi animali che belano felici. Estrae l’ascia dallo zaino.
La solleva una volta, e guarda il suo uomo disteso a terra, che dorme. Non ce la fa, appoggia l’ascia sul terreno. Ma poi la solleva di nuovo, si fa coraggio, e colpisce.
Un colpo.
L’uomo non fa in tempo a svegliarsi: è già morto.
Un altro colpo. Un altro ancora.
Niente sarà più come prima. Il sangue gocciola dalle ferite. Impregna il terreno. L’ascia viene lasciata in parte: finirà in una buca poco lontano, vicino a quel cucuzzolo dal quale Simone ammirava le sue montagne.
Nessuno sa che fine abbia fatto la donna. Qualcuno parla dei Piombi, a Venezia, come crudele ma giusta punizione.

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