Un alieno sul Pizzo Scalino
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A distanza di due giorni dall'escursione di mercoledi, ancora non mi capacito sulla
conclusione inaspettata della stessa. Se da un lato non posso crederci, dall'altro
i fatti mi impongono il contrario. Anche ora, che sto cercando di analizzare con raziocinio
la vicenda, non riesco a discernere la realtà dalla fantasia: se di questo si è trattato.....
Forse sto solo vivendo un sogno, oppure sono semplicemente impazzito: chi può dirlo?
Per dovere di cronaca, mi accingo comunque a raccontare tutti i particolari della storia,
in modo obiettivo, per non condizionare in alcun modo il giudizio di nessuno.
Non partirò dall'inizio, perchè dopo quello che è succcesso, è mia impressione che i fatti
vadano raccontati per come li ho vissuti intimamente.
«Stavo scendendo dal Pizzo Scalino, il sentierino dell'edificio sommitale andava percorso
con prudenza, vista l'esposizione, perchè dunque andavo così velocemente?
Eppure in salita, soprattutto negli ultimi metri, avevo sofferto tantissimo. Ogni dieci passi mi
fermavo a riprendere fiato. Non avevo neppure più le energie per dirmi che oramai era
fatta. Anche quando ero di fianco alla croce di vetta, con le gambe che mi tremavano per lo
sforzo, non avevo gioito. Un pensiero non voleva andarsene, già mio compagno per tutta
la salita, era fisso nel mio cranio come un chiodo nel muro:
"non ce la posso fare!"
Era lì da un paio di giorni, nel momento stesso in cui FrancescoR era ritornato alla carica:
fare lo Scalino era il suo obiettivo di Settembre, non se l'era certo scordato.
Complice la seconda decade di Agosto, passata prima al mare e poi a riprendermi da un
attacco influenzale, mi ero ritrovato con un pessimo allenamento da gestire.
Quando era giunto il suo W.A. il mio primo pensiero era stato:
"Non sono in grado di percorrere un itinerario così lungo!"
Ne avevo parlato ad Erre ma invano. Il giorno prima dell'escursione (così come durante la
notte seguente) pensieri negativi mi avevano spinto a rinunciare: perchè non l'avevo fatto?
Non lo sapevo!
Alle sette e trenta di Mercoledi 18 Settembre, la mia auto parcheggiata a Carnale, mi
aveva tolto ogni dubbio: non avevo saputo dire di no!
"Sto sbagliando" avevo detto ad alta voce poco oltre le abitazioni del paesino
"e in vetta non ci arriverò mai!"
Era una consapevolezza così tanto interiorizzata nel mio subconscio da non avermi
abbandonato neppure con l'arrivo del giorno.
"Arriverò fin dove le gambe mi porteranno....non sarà molto!"
Francesco aveva cercato di consolarmi e stimolarmi, ma la sensazione che sentivo così
vivida assomigliava ad una premonizione, piuttosto che ad un semplice pessimismo.
Dopo due ore di cammino quando, guardato l'altimetro, mi ero reso conto che mancavano
più di duemila metri di dislivello per raggiungere la vetta, lo sconforto mi aveva accarezzato
le guance. Senza più ascoltare la mia lamentosa voce interiore, delegando a Francesco
il compito di rompere il silenzio della selvaggia Val di Togno, avevo abbassato il capo.
L'obiettivo che mi ero posto era semplicemente camminare, un passo dopo l'altro e basta.
Giunti, tempo dopo, al rifugio De Dosso, lo sciopero interiore (che mi ero autoimposto) si
era fatto una pausa. Un'affermazione partita dai miei neuroni e precipitata fino alla punta
dei piedi, mi aveva ricordato un punto fermo di questa salita che, pensavo, potesse diventare
straziante:
"quando il dislivello mancante sarà meno di mille metri forse (ma lo dico con riserva) potrò
seriamente pensare alla cima!"
Parlato brevemente con il pastore, la nostra escursione era ripresa. Seguendo le indicazioni
per il Passo Forame eravamo giunti alla fine della piana alluvionale di q. 2200m circa.
Oltre, sentiero e ometti non erano più visibili, pur essendo logica la via di salita, avevamo
cercato di reperire il vecchio tracciato, evidentemente scomparso.
Saliti in qualche maniera, tra erbe alte, qualche ometto qua e là e brevi pezzi di sentiero,
avevamo raggiunto i 2400m di quota. Ero quindi giunto nel punto in cui il dislivello
mancante era meno di mille metri. Senza percepire alcuna gratificazione per l'obiettivo
raggiunto, avevo stretto ancora di più i denti: solo fatica accompagnata da altra fatica, mi
avevano risposto. Il pessimismo (sempre più giustificato) che mi aveva accompagnato fin lì,
si era fatto sentire ancora, il suo peso sulle mie spalle mi stava schiacciando come un
macigno. Superato il piccolo pianoro avevamo incrociato il sentiero che, dal Passo
Forame, conduce fino al Passo degli Ometti.
Il tempo stava cambiando (ma era previsto), le nuvole avevano coperto sia il sole, come un
opaco presagio negativo (l'ennesimo), così come la labile speranza (per la quota raggiunta)
che si era infilata tra i miei quattro capelli.
Mi ero allora tolto lo zaino appoggiandolo dietro un masso, sfilato il micropile e un
antivento, vi avevo messo nelle tasche il cellulare, una bottiglietta d'acqua ed una
barretta: salire leggero era l'unica speranza che nutrivo per raggiungere la vetta!
Settecento metri da incubo, contrapposti al desiderio di non mollare di un millimetro
(con i miei passi lenti a scandirne il tempo) mi aspettavano a braccia aperte.
Risalito con molta fatica il conoide ripieno di detriti, avevamo raggiunto (un secolo dopo)
il sentiero segnalato proveniente dal rifugio Cristina. Camminare finalmente su di esso
mi aveva rianimato, ma la felicità conseguente si era affievolita ben presto.
Con zero energie mi ero inerpicato per il canale, all'uscita del quale, avevo visto la cresta E.
Gli ultimi 170 metri erano stati un autentico delirio superati solo grazie alla mia
trentennale capacità di saper soffrire e soffrire ancora!
Seduto su di un sasso, mentre bevevo e mangiavo l'unica barretta che mi ero portato, mi
ero chiesto se mai fossi riuscito a tornare all'auto e (soprattutto) in quali condizioni.
Cinque minuti in silenzio e poi la discesa (l'avevo imposto a Erre, già dalla mattina presto).
Cinque minuti che non avrebbero dovuto incidere minimamente sul mio stato di salute,
eppure così era stato! Perchè dopo i primi passi incerti, avevo cominciato a scendere
disinvolto come se avessi cominciato a camminare solo in quel momento! Cosa era accaduto?
Come era possibile che l'attimo precedente fossi un autentico straccio, ed ora andassi così
bene da distanziare Francesco? Che cosa era cambiato in quel brevissimo lasso di tempo?
Non lo sapevo. Con il passare dei minuti, in compagnia di un fastidioso nevischio che aveva
cominciato a cadere, più di un sospetto si era fatto posto nella mia testa.
Piano piano, i componenti di un puzzle che fino ad un attimo prima non riuscivo a comporre,
avevano trovato per magia la loro giusta collocazione.
Tante domande, aggrovigliate tra di loro, stavano "rilasciando" le loro risposte...
Come mai, l'anno precedente R, completamente privo di energie, alla vista della piramide
del Pizzo Scalino si era improvvisamente ripreso?
Era accaduto anche a me, proprio di fianco alla croce di vetta.
Pensavo che lungo i sedici chilometri di discesa avrei finito, inevitabilmente, per accusare
la fatica, invece niente! E i centocinquanta metri di salita, che tanto mi incutevano
timore per ritornare a Carnale, erano scivolati via leggeri come una piuma. Le ginocchia
non mi dolevano: che cosa era successo dunque in vetta?
Mentre mi toglievo le scarpe, proprio di fianco all'auto, avevo pensato a Francesco.
Lui che camminava dall'alba al tramonto con totale indifferenza alla fatica.
Lui che "snocciolava" tremila metri di dislivello (quando ne faceva pochi) con una
semplicità disarmante.
Lui e il "Nuovo Pizzo Scalino", come diceva spesso divertito, edificato dagli alieni.
"Sarà un alieno pure lui!" mi ero detto allora sorridendo.
Un pensiero ridicolo partorito dalla mia mente provata da una giornata "troppo" lunga
per essere vera.
"Certo che così tutto avrebbe un senso" avevo proseguito con un ghigno dipinto sulle labbra
"giustificherebbe tutto quello che fa, così come la mia trasformazione avuta in vetta:
è un bel vantaggio avere un alieno per amico!".
Sempre più divertito dalle stupidate che avevo snocciolato in quei brevi attimi, ero girato
intorno all'auto. Giunto ad un passo dalla portiera di guida, qualcosa aveva attirato la mia
attenzione. Un particolare del braccio di ERRE mi aveva fatto fermare. Per un attimo, solo
un breve istante, avevo creduto di vedere un arto che di umano non aveva nulla!!
Un'allucinazione o che altro?
Fatto il passo successivo, avevo aperto la portiera: cosa avrei visto infilandomi
nell'abitacolo? La tranquillizzante sagoma di Francesco o cosa?
Abbassato il capo, mi ero accorto che tutto quello che avevo creduto in tutta la mia vita,
in un solo istante si era capovolto!
Sedutomi titubante di fianco al mio "passeggero" mi ero reso conto che la giornata non
sarebbe finita nel modo ovvio in cui speravo!»
conclusione inaspettata della stessa. Se da un lato non posso crederci, dall'altro
i fatti mi impongono il contrario. Anche ora, che sto cercando di analizzare con raziocinio
la vicenda, non riesco a discernere la realtà dalla fantasia: se di questo si è trattato.....
Forse sto solo vivendo un sogno, oppure sono semplicemente impazzito: chi può dirlo?
Per dovere di cronaca, mi accingo comunque a raccontare tutti i particolari della storia,
in modo obiettivo, per non condizionare in alcun modo il giudizio di nessuno.
Non partirò dall'inizio, perchè dopo quello che è succcesso, è mia impressione che i fatti
vadano raccontati per come li ho vissuti intimamente.
«Stavo scendendo dal Pizzo Scalino, il sentierino dell'edificio sommitale andava percorso
con prudenza, vista l'esposizione, perchè dunque andavo così velocemente?
Eppure in salita, soprattutto negli ultimi metri, avevo sofferto tantissimo. Ogni dieci passi mi
fermavo a riprendere fiato. Non avevo neppure più le energie per dirmi che oramai era
fatta. Anche quando ero di fianco alla croce di vetta, con le gambe che mi tremavano per lo
sforzo, non avevo gioito. Un pensiero non voleva andarsene, già mio compagno per tutta
la salita, era fisso nel mio cranio come un chiodo nel muro:
"non ce la posso fare!"
Era lì da un paio di giorni, nel momento stesso in cui FrancescoR era ritornato alla carica:
fare lo Scalino era il suo obiettivo di Settembre, non se l'era certo scordato.
Complice la seconda decade di Agosto, passata prima al mare e poi a riprendermi da un
attacco influenzale, mi ero ritrovato con un pessimo allenamento da gestire.
Quando era giunto il suo W.A. il mio primo pensiero era stato:
"Non sono in grado di percorrere un itinerario così lungo!"
Ne avevo parlato ad Erre ma invano. Il giorno prima dell'escursione (così come durante la
notte seguente) pensieri negativi mi avevano spinto a rinunciare: perchè non l'avevo fatto?
Non lo sapevo!
Alle sette e trenta di Mercoledi 18 Settembre, la mia auto parcheggiata a Carnale, mi
aveva tolto ogni dubbio: non avevo saputo dire di no!
"Sto sbagliando" avevo detto ad alta voce poco oltre le abitazioni del paesino
"e in vetta non ci arriverò mai!"
Era una consapevolezza così tanto interiorizzata nel mio subconscio da non avermi
abbandonato neppure con l'arrivo del giorno.
"Arriverò fin dove le gambe mi porteranno....non sarà molto!"
Francesco aveva cercato di consolarmi e stimolarmi, ma la sensazione che sentivo così
vivida assomigliava ad una premonizione, piuttosto che ad un semplice pessimismo.
Dopo due ore di cammino quando, guardato l'altimetro, mi ero reso conto che mancavano
più di duemila metri di dislivello per raggiungere la vetta, lo sconforto mi aveva accarezzato
le guance. Senza più ascoltare la mia lamentosa voce interiore, delegando a Francesco
il compito di rompere il silenzio della selvaggia Val di Togno, avevo abbassato il capo.
L'obiettivo che mi ero posto era semplicemente camminare, un passo dopo l'altro e basta.
Giunti, tempo dopo, al rifugio De Dosso, lo sciopero interiore (che mi ero autoimposto) si
era fatto una pausa. Un'affermazione partita dai miei neuroni e precipitata fino alla punta
dei piedi, mi aveva ricordato un punto fermo di questa salita che, pensavo, potesse diventare
straziante:
"quando il dislivello mancante sarà meno di mille metri forse (ma lo dico con riserva) potrò
seriamente pensare alla cima!"
Parlato brevemente con il pastore, la nostra escursione era ripresa. Seguendo le indicazioni
per il Passo Forame eravamo giunti alla fine della piana alluvionale di q. 2200m circa.
Oltre, sentiero e ometti non erano più visibili, pur essendo logica la via di salita, avevamo
cercato di reperire il vecchio tracciato, evidentemente scomparso.
Saliti in qualche maniera, tra erbe alte, qualche ometto qua e là e brevi pezzi di sentiero,
avevamo raggiunto i 2400m di quota. Ero quindi giunto nel punto in cui il dislivello
mancante era meno di mille metri. Senza percepire alcuna gratificazione per l'obiettivo
raggiunto, avevo stretto ancora di più i denti: solo fatica accompagnata da altra fatica, mi
avevano risposto. Il pessimismo (sempre più giustificato) che mi aveva accompagnato fin lì,
si era fatto sentire ancora, il suo peso sulle mie spalle mi stava schiacciando come un
macigno. Superato il piccolo pianoro avevamo incrociato il sentiero che, dal Passo
Forame, conduce fino al Passo degli Ometti.
Il tempo stava cambiando (ma era previsto), le nuvole avevano coperto sia il sole, come un
opaco presagio negativo (l'ennesimo), così come la labile speranza (per la quota raggiunta)
che si era infilata tra i miei quattro capelli.
Mi ero allora tolto lo zaino appoggiandolo dietro un masso, sfilato il micropile e un
antivento, vi avevo messo nelle tasche il cellulare, una bottiglietta d'acqua ed una
barretta: salire leggero era l'unica speranza che nutrivo per raggiungere la vetta!
Settecento metri da incubo, contrapposti al desiderio di non mollare di un millimetro
(con i miei passi lenti a scandirne il tempo) mi aspettavano a braccia aperte.
Risalito con molta fatica il conoide ripieno di detriti, avevamo raggiunto (un secolo dopo)
il sentiero segnalato proveniente dal rifugio Cristina. Camminare finalmente su di esso
mi aveva rianimato, ma la felicità conseguente si era affievolita ben presto.
Con zero energie mi ero inerpicato per il canale, all'uscita del quale, avevo visto la cresta E.
Gli ultimi 170 metri erano stati un autentico delirio superati solo grazie alla mia
trentennale capacità di saper soffrire e soffrire ancora!
Seduto su di un sasso, mentre bevevo e mangiavo l'unica barretta che mi ero portato, mi
ero chiesto se mai fossi riuscito a tornare all'auto e (soprattutto) in quali condizioni.
Cinque minuti in silenzio e poi la discesa (l'avevo imposto a Erre, già dalla mattina presto).
Cinque minuti che non avrebbero dovuto incidere minimamente sul mio stato di salute,
eppure così era stato! Perchè dopo i primi passi incerti, avevo cominciato a scendere
disinvolto come se avessi cominciato a camminare solo in quel momento! Cosa era accaduto?
Come era possibile che l'attimo precedente fossi un autentico straccio, ed ora andassi così
bene da distanziare Francesco? Che cosa era cambiato in quel brevissimo lasso di tempo?
Non lo sapevo. Con il passare dei minuti, in compagnia di un fastidioso nevischio che aveva
cominciato a cadere, più di un sospetto si era fatto posto nella mia testa.
Piano piano, i componenti di un puzzle che fino ad un attimo prima non riuscivo a comporre,
avevano trovato per magia la loro giusta collocazione.
Tante domande, aggrovigliate tra di loro, stavano "rilasciando" le loro risposte...
Come mai, l'anno precedente R, completamente privo di energie, alla vista della piramide
del Pizzo Scalino si era improvvisamente ripreso?
Era accaduto anche a me, proprio di fianco alla croce di vetta.
Pensavo che lungo i sedici chilometri di discesa avrei finito, inevitabilmente, per accusare
la fatica, invece niente! E i centocinquanta metri di salita, che tanto mi incutevano
timore per ritornare a Carnale, erano scivolati via leggeri come una piuma. Le ginocchia
non mi dolevano: che cosa era successo dunque in vetta?
Mentre mi toglievo le scarpe, proprio di fianco all'auto, avevo pensato a Francesco.
Lui che camminava dall'alba al tramonto con totale indifferenza alla fatica.
Lui che "snocciolava" tremila metri di dislivello (quando ne faceva pochi) con una
semplicità disarmante.
Lui e il "Nuovo Pizzo Scalino", come diceva spesso divertito, edificato dagli alieni.
"Sarà un alieno pure lui!" mi ero detto allora sorridendo.
Un pensiero ridicolo partorito dalla mia mente provata da una giornata "troppo" lunga
per essere vera.
"Certo che così tutto avrebbe un senso" avevo proseguito con un ghigno dipinto sulle labbra
"giustificherebbe tutto quello che fa, così come la mia trasformazione avuta in vetta:
è un bel vantaggio avere un alieno per amico!".
Sempre più divertito dalle stupidate che avevo snocciolato in quei brevi attimi, ero girato
intorno all'auto. Giunto ad un passo dalla portiera di guida, qualcosa aveva attirato la mia
attenzione. Un particolare del braccio di ERRE mi aveva fatto fermare. Per un attimo, solo
un breve istante, avevo creduto di vedere un arto che di umano non aveva nulla!!
Un'allucinazione o che altro?
Fatto il passo successivo, avevo aperto la portiera: cosa avrei visto infilandomi
nell'abitacolo? La tranquillizzante sagoma di Francesco o cosa?
Abbassato il capo, mi ero accorto che tutto quello che avevo creduto in tutta la mia vita,
in un solo istante si era capovolto!
Sedutomi titubante di fianco al mio "passeggero" mi ero reso conto che la giornata non
sarebbe finita nel modo ovvio in cui speravo!»
Hike partners:
FrancescoR,
Gabrio


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