Cima Bianca (2612 m)
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In Val Verzasca non ho ancora messo piede quest’anno. Sento che devo rimediare e voglio farlo con una cima simbolica, che desidero raggiungere da molti anni. Scelgo però un avvicinamento leventinese, perché la Val Vegorness semplicemente non mi attira, con quel lungo passaggio sul fondovalle duro più della pietra (se così si può dire dell’asfalto).
La godibile salita da Cala, la stessa (parzialmente) che si fa per il Penca, il Forno, il Barone, la Capanna Sponda etc etc, invece, la conosco bene e so che incontra il mio gusto, nonostante la doppia perdita di dislivello (computo globale tra andata e ritorno: 240 m, da aggiungere ai restanti 1672).
Per illustrare il richiamo della Cima Bianca, non so se bastano la parole del Brenna: “Montagna splendente che incanta il visitatore che giunge a Sonogno”, ed in relazione alla parte finale dal Passo di Piatto alla vetta: “La via normale: è bellissima. Tratti di arrampicata su roccia stupenda”. Se non bastano aggiungo anche la mia versione: “È una calamita per gli occhi: il suo versante N, solenne e maestoso, fa dimenticare le piccolezze e le vacuità degli affanni umani”.
Detto questo veniamo alla salita. Da Valle (Chironico) seguo il sentiero che attraverso Cala, il ponte sul Ticinetto e l’Alpe del Laghetto porta al Passo di Piatto.
All’ultimo tornante prima di giungere al Passo, lo abbandono e comincio la salita su ganna in direzione della punta più alta della Cima Bianca (quella che da qui sembra essere la vetta, a destra di un profondo intaglio).
Attorno alla quota 2400 m, dove si esaurisce la verticalità dell’ampio muro che scende da un rilievo secondario della cresta W della Cima Bianca e, nel contempo, dove la ganna si innalza ancora più ripida in direzione di un canalino che punta alla vetta, qui, sulla destra, noto un primo corposo ometto, seguito da un altro e un altro ancora, e poi tutta una serie di bolli blu.
Superato l’ometto affronto subito il tratto forse più pericoloso della giornata: un brevissimo passaggio orizzontale su placche sulle quali è depositato uno strato di 4-5 centimetri di acqua ghiacciata. C’è giusto lo spazio per appoggiare lo scarpone e passare con la massima circospezione. Tutto il versante si trova nelle medesime condizioni: in assenza di sole (che attualmente vedrà forse per mezz’ora al giorno) è tutto un florilegio di candelotti ghiacciati e scivoli verglassati. A cercare i giusti passaggi si può evitare il ghiaccio vivo (anche perché, altrimenti, toccherebbe rinunciare) però la lentezza e l’attenzione sono d’obbligo.
Passato il traverso verso destra, inizio la salita in direzione della cresta W, in una zona sempre molto fredda ma senza ghiaccio. I bolli blu e gli ometti, soprattutto i primi, non mancano mai e devo dire che in questo ambiente severo e verticale sono di conforto.
La cresta è aerea e, ad un certo punto, sorpresa delle sorprese, i segnavia abbandonano la cresta W e si dirigono, con un passaggio da fare con gli oli santi in saccoccia, verso la cresta (il costone) SW. C’è da superare una cengia erbosa appoggiata sul nulla: nel primo tratto la cengia è “nature”, la seconda parte è invece assicurata da una corda fissa (nuova, presumibilmente del 2013-2014, secondo quanto si ricava dal libro di vetta).
Passata la cengia, si ritorna verso la cresta W (il Brenna non cita il passaggio della cengia: si limita ad osservare “seguendo sempre il filo dell’aerea cresta, – W – superando placche e muretti di pietra, si giunge in cima”).
Anche il tratto compreso tra la fine della cengia ed il nuovo raggiungimento della cresta W è delicato. Passaggi su erba ripida con, sotto, 1500 metri di vuoto - verso Cabiói - non consentono distrazioni.
La cresta sarà anche aerea ma se non altro la roccia dà più sicurezza dell’erba; c’è anche un passaggio tra due lame che sarebbe meglio fare senza zaino: io provo a tenerlo, ma gratta da entrambe le parti.
Nell’ultimissimo tratto aggiro una specie di torre andando a toccare addirittura la cresta S (ma si tratta solo di pochi metri).
Incredibile la soddisfazione nel salutare l’ometto di vetta, posizionato con vista su Sonogno. Il punto più alto è però verso la Leventina, seguito poi da un ulteriore risalto, ancora più sul lato del Poncione Croara, che dà la migliore visuale verso la Leventina stessa.
Nonostante le difficoltà che mi aspettano, mi concedo una birra bianca: quale posto migliore se non la Cima Bianca?
Le iscrizioni sul libro di vetta sono poche: non le ho contate, ma siamo al livello della Punta dello Stambecco. Immancabile quella del Sig. Olindo Scattini, il re della Verzasca, che con Jules conoscemmo durante la salita alla Corona di Redòrta.
Il ritorno, forse perché già conscio delle difficoltà, lo trovo meno complesso dell’andata (fatta davvero a rilento, meditando ogni passo, ogni appiglio e ogni appoggio). In particolare, all’uscita della parete Nord, cioè poco prima di raggiungere la ganna, resto leggermente più alto nel traverso (pochi metri) ed evito così il raggelante passaggio sul ghiaccio.
Per il resto ripeto il lungo tragitto dell’andata, con la variante del Passo di Piatto, che vado a toccare per curiosità, ma che non è necessario ai fini della salita (discesa) alla Cima Bianca.
Giungo a Valle dopo quasi 11 ore di marcia: la Cima Bianca resterà tra i ricordi più indimenticabili di questo 2014.
Tempi:
Chironico (Valle) – Cima Bianca : 6 ore e 15’
Cima Bianca – Passo di Piatto: 1 ora e 30’
Passo di Piatto – Chironico (Valle): 3 ore

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