Monte San Primo, 1686
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29 marzo, mezza mattina.
Nel grigio umido di questo mese di marzo, si apre improvvisamente una falla.
Il San Primo, visto dall’angolazione giusta, sa essere fascinoso e ora è lì, avvolto nella sua appena rinnovata livrea bianca, che domanda: “Ma che fai?!”
Devo rispondere alla chiamata.
So che la finestra, si chiuderà presto; sicuramente prima di poter arrivare in vetta, ma non importa: in questo momento, l’importante è mollare tutto e riallacciare gli sfilacciati rapporti con la montagna.
Anche perché, per l’imminente Pasqua, non si prevede un granché di buono.
“Mollare tutto” è una cosa che, con la testa, puoi fare in una frazione di secondo, ma, fisicamente, poi, richiede tempo; già è una fortuna poterlo fare, (oggi posso), perché la vita ti impone continue scelte e non sempre puoi (vuoi? riesci?) a stabilire le priorità secondo logica.
Oggi, come detto, fortunatamente, posso (voglio e ci riesco); ma comunque, ora che muovo i primi passi dal parcheggio del San Primo son quasi le due.
L’impiantista, constatato che i miei sci non intendono comprare biglietti, chiude lo skilift, che probabilmente non ha avuto molti ospiti, oggi. La neve superficiale, caduta nella notte è già una pastina morbida e un po’ collosa, ma appoggia su una crosta abbastanza consistente: sul ripido iniziale scivola un po’ via, ma è promessa di una sciata senza problemi, per il ritorno.
Dopo un breve tratto “instabile”, incrocio un buona traccia che non da più giustificazioni: "Son s'ciopàa" direbbe il grande Enzo Jannacci.
Sopra di me un altro escursionista pomeridiano sale verso l’abbandonata stazione superiore del vecchio impianto (forse ripristineranno anche questo); quando raggiungo la stazione automatizzata antincendio, gli scialpinisti sono diventati misteriosamente due e si apprestano a scendere.
Continuo per il solo gusto di avere la montagna tutta per me: la nebbia, come previsto, si è impadronita del panorama e promette di inghiottire tutto.
Proseguo lungo la cresta vincendo la mia idiosincrasia al salire su una montagna senza vedere niente: il percorso è noto e sicuro e raggiungere la cima è il minimo sindacale per poter parlare di riconciliazione tra i muscoli e l’antica arte del camminare.
Dalla Cima del Costone, mi abbasso alla ricerca dell’erta finale; nella nebbia, tutto si dilata e sembra che il San Primo sia sparito nel nulla, ma in realtà si tratta solo di una manciata di minuti; due pietroni affioranti mi dicono che ci siamo, anche se, per vedere le antenne che deturpano la cima, devo quasi sbatterci contro.
I tempi tecnici per le manovre di cambio d’assetto, sono sufficienti per vedere una decisa schiarita. Sempre brutto tempo è, ma se non altro, ho in vista tutto l’itinerario di discesa e, a sprazzi, mi compare anche il lago.
Discesa senza problemi e senza entusiasmi, come previsto. Anche senza la volpe di Alberto, ahimè; ma me la godo con calma nel silenzio e nella solitudine assoluta.
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