“Oggi par di esagerare, ma a quel tempo le disgrazie in paese arrivavano più spesso che le morti naturali. A parte i poveretti che se ne andavano in quattro e quattr’otto di grippe polmonite tisi galoppante appendicite in case di miseria col medico che stentava sempre ad arrivare, bisogna proprio dire che noi avevamo le montagne più dirupate del mondo: le abbiamo ancora, ma oggi è un altro lavorare. Sugli alpi ne morivano tutti gli anni, ed eravamo sempre noi giovani a metterci la pelle; i vecchi come era giusto stavano vicino alla caldaia, e noi dovevamo arrampicarci sulle creste dietro le capre perdute, per bello e per brutto tempo; e quelli che non andavano all’alpe dovevano salire sulle corone [sporgenza che interrompe un dirupo] a far fieno, che non era rischio meno brutto, soprattutto al momento di buttare le reti a valle [di solito il fieno tagliato sulle cenge era gettato a valle con reti di corda]. Così alla povera Arcangela, che aspettava sotto, capitò di vedere arrivar giù la figlia prima del fieno. E poi c’erano le frane e le valanghe, e le piene del fiume a portar via prati stalle bestie e qualche volta anche la gente, come le due Marca della Bolla trovate un mese dopo sotto la melma perché le cornacchie seguitavano a gracchiare in quel posto: ricordo il particolare siccome era stato nostro nonno Benvenuti a vedere le bestiacce; era passato alcune volte dopo il disastro ed erano sempre lì in devozione sul trave conficcato nella melma, e diffidenti come sono non scappavano lontano; nostro nonno andò a dire ai parenti delle Marca che scavassero lì, e difatti trovarono le vecchie al quarto colpo di piccone.”

Da “Il fondo del sacco”, Plinio Martini, pagina 16, Edizioni Casagrande, 1970.

 
 

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